sabato 21 aprile 2012

Editoria, con "Il partigiano Montezemolo" va in scena l'altra Resistenza

di Giuseppe Musmarra

Il partigiano Montezemolo (Dalai editore) è un libro che si dovrebbe leggere anche se avesse tutte le pagine bianche. Si dovrebbe leggerlo comunque, come avviene per quei rari testi che realmente riempiono un vuoto. Questo vuoto riguarda non soltanto una persona, ma una parte della Resistenza che solo un Paese smemorato come il nostro ha potuto tendere a ignorare nel suo significato più profondo. Il libro verrà presentato per la prima volta domani alle 18 al Museo Storico della Liberazione di via Tasso.


Mario Avagliano ha voluto confrontarsi con un compito nobile, ma storiograficamente gravoso: ricostruire la vita e la clandestinità di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, l'ufficiale dell'esercito fedele al re, anticomunista, che nella tragedia della Roma occupata dai nazisti svolge un ruolo chiave, centrale, eroico, contro gli occupanti. Dopo quattro mesi di clandestinità, Montezemolo viene arrestato dalla polizia fascista e consegnato a Kappler in via Tasso. Torturato quasi ogni giorno, con il volto trasformato in una maschera di lividi e sangue, non emette un lamento, al punto da ispirare soggezione e timore agli stessi carnefici. Straziante il particolare degli incontri ogni mercoledì con la moglie Juccia, pochissimi minuti di affetto e di premure, di raccomandazioni per i figli. Con lei che l'ultimo mercoledì lo attenderà invano.
Il compito dell'autore, dicevamo, è al contempo nobile e gravoso: nobile perché scolpisce a chiare lettere, sia pure nel garbo e nella prudenza caratteristici dell'approccio di Avagliano, che la Resistenza romana fu non solo comunista, ma socialista, liberale, democristiana, monarchica e persino, come nel caso di Montezemolo, anticomunista. E' una verità elementare, inoppugnabile, eppure chissà perché, contestata oggi da alcune falangi estremistiche. Ma quello di Avagliano è stato anche, evidentemente, un compito storiograficamente travagliato. Lo testimonia la stessa genesi dell'opera, che ha visto la luce dopo due differenti e cronologicamente distanti fasi di ricerca.
In sostanza: sulla clandestinità di Montezemolo esistono pochissime testimonianze scritte di rilievo, la repentinità della sua fine alle Fosse Ardeatine dopo la strage di via Rasella ha troncato di netto non solo una persona, ma anche una fonte che nel Dopoguerra sarebbe stata di incalcolabile importanza. Né ha storiograficamente aiutato la decisione della vedova, che in punto di morte ha chiesto ai figli, per volontà di riservatezza, di distruggere tutta al corrispondenza tra lei ed il marito, sempre uniti da un legame fortissimo.
Eppure, considerato questo ostacolo non trascurabile, Avagliano ha fatto quanto oggi umanamente possibile per uno storico. Ha ricostruito il contesto in maniera assolutamente mirabile, ha parlato con i figli di Montezemolo, con i figli di Fulvia Ripa di Meana (cugina di Montezemolo e altra figura importante del periodo, autrice dell'imperdibile "Roma clandestina" ripubblicato da Kaos Edizioni) e con tutta una serie di protagonisti della Resistenza, oltre a prodursi in un certosino, encomiabile lavoro di ricerca negli archivi dello Stato maggiore dell'esercito.
Emerge, nitida, la figura di un eroe. Di una infaticabile figura di collegamento, di un uomo coraggioso e leale. Montezemolo diceva: "Non chiamatemi partigiano, chiamatemi patriota". Da patriota, portato alle Fosse ardeatine, muore inneggiando all'Italia e al re. Con la coerenza di una vita.
(Omniroma, 21 aprile 2012)

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